La saga di SANTE: CORPI LEICA M a pellicola

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Emilio Vendramin
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La saga di SANTE: CORPI LEICA M a pellicola

Messaggio da Emilio Vendramin » mer gen 29, 2014 7:24 pm

testo di SANTE CASTIGNANI

Leica M, una saga senza fine

Correva il lontano 1954.

La Ernst Leitz di Wetzlar dominava da circa 4 decenni la scena del 35mm, con unica vera, temibile, rivale la Carl Zeiss, che, da Jena prima, e da Stoccarda poi, rischiava di rubarle la scena con la splendida Contax, macchina forse non affidabilissima, ma di sicuro molto più moderna e pratica. In particolare, e questo già da lunghi anni, la Contax vantava un telemetro con base molto più ampia della rivale, e un'unica finestrella per inquadrare e mettere a fuoco; disponeva inoltre di un attacco a baionetta sicuramente più pratico, e di un caricamento della pellicola più veloce e sicuro.

Seppure con il consueto ritardo, la Leitz decise che i tempi erano maturi per una robusta revisione dell'ormai antico schema delle leichette a vite, e oggi possiamo sicuramente affermare che le attese degli aficionados non potevano essere meglio premiate: la neonata era niente di meno che la Leica M3. Ci vorrebbe uno squillo di tromba, perché la portata della rivoluzione era tale che oggi possiamo comprenderla solo in parte.
Intanto l'attacco delle ottiche passava dalla vecchia vite 39x1 alla tuttora attualissima baionetta M; la struttura del corpo, in solida pressofusione, surclassava quella in lamiera delle antenate. Il mirino, dalla immagine finalmente grande e confortevole (0,91X), era abbinato a un telemetro la cui straordinaria precisione rimane tuttora insuperata; l'avanzamento della pellicola e il riarmo dell'otturatore erano affidate a una moderna leva di carica, che permetteva di saggiare a ogni foto, con la propria dolcezza, la superlativa qualità della meccanica. Nella prima versione l'otturatore contemplava ancora la scala antica (1/10 1/25 1/50 ecc.), e assicurava una precisione e una silenziosità di funzionamento ancora ad oggi (specie quest'ultima) imbattute.

Il caricamento della pellicola era molto più pratico che nelle macchine a vite, in quanto lo sportellino posteriore permetteva l'accesso al vano del film; il mirino offriva le cornici del 50 (fissa), del 90 e del 135; queste ultime vengono attivate automaticamente all'atto dell'inserimento dell'ottica relativa, o anche selezionate tramite una levetta sul frontale (non presente nella primissima versione).

Per capire quanto evoluta fosse la concezione della M3, basterebbe considerare quanto essa sia strutturalmente simile alle recentissima MP, ultima nata della Casa di Wetzlar/Solms. Di fatto, fatta salva l'assenza di cornici per i grandangolari, una M3 mantiene tutt'oggi una usabilità altissima.

L'impatto sul mercato fu esaltante: nelle sue varie versioni la M3 rimane la Leica più venduta di tutti i tempi, per un totale che si aggira sui 220.000 pezzi! Le modifiche che furono apportate nella sua lunga vita (quattordici anni) riguardano principalmente la già citata levetta per la selezione delle cornici, una nuova scala dei tempi standard, il caricamento con una sola corsa della leva invece che in due colpi come il primo modello, oltre a dettagli minori.

Prendiamo in mano una di queste meraviglie: intanto godiamo del contatto con la vulcanite, piacevolmente ruvida, e sicura nella presa come nessun altro rivestimento; proviamo poi a telemetrare: se abbiamo avuto la fortuna di imbatterci in un esemplare non oltraggiato dal tempo, o fresco di revisione, troveremo un mirino di una godibilità unica; mettere a fuoco è di una facilità e sicurezza non riscontrabili in nessuna altra macchina. Il pulsante di scatto sembra affondare in un cuscino d'aria, e il sussurro dell'otturatore la dice lunga su come si sapeva costruire in quei tempi. La sensazione di perfezione, di assoluta essenzialità, di fluidità dello strumento invoglia a fotografare, e giustifica l'appellativo coniato da qualcuno di Stradivari delle fotocamere.

Implicito in quanto sopra un caldo consiglio: se avete la fortuna di possedere una M3 non lasciatela a prendere polvere su uno scaffale, fatela scattare, e vedrete di che piacere (e di che foto!) verrete ricompensati!

M3, M2, M4
Abbiamo lasciato la M3 nel pieno della sua gloriosa carriera. Vorrei fare ancora qualche considerazione su questa macchina, e più in generale sulla produzione di quegli anni. Una azienda pur prestigiosa e importante come la Leitz era tuttavia strutturata come impresa familiare; se l'Herr Ernst Leitz di turno credeva in un prodotto, questo si faceva, al meglio. Non c'erano reparti preposti a lunghi studi di fattibilità, al calcolo minuzioso dei costi, delle ore di lavoro necessarie, ecc. Sia chiaro che oggi una azienda siffatta non reggerebbe il mercato, e pertanto la portata della nostra nostalgia deve essere prudente e circoscritta. Ma non possiamo per questo dimenticare, da veri appassionati, che c'è stata un'età dell'oro in cui sul collo del progettista non soffiava il fiato del responsabile del marketing o dell'analista dei costi di produzione. Il preambolo per dire che, da un punto di vista strettamente qualitativo, l'esperienza di M3 e sorelle non è ripetibile.

Non voglio certo affermare che le macchine attuali siano costruite male, ma soltanto che da un punto di vista di eccellenza assoluta certe finezze non sono più sostenibili, né forse apprezzate. Utile a questo punto trasferire l'attenzione a un settore per certi versi gemello, quello dell'orologeria meccanica di alto livello. Chi conosce questa nobile disciplina (tanto alta e virtuosa quanto becero e consumista appare allo scrivente la corsa all'ultimo Daytona, ma sarebbe un discorso lungo...) sa perfettamente che ci sono regole ferree che nessuna Maison rischierebbe di infrangere, pena il ripudio dei veri appassionati. Prendiamo una semplice vite: altro è una vite con testa a taglio perfettamente lucidata, lavorata al tornio e magari azzurrata alla fiamma, altro una vitina a croce industriale, distrattamente pescata da una scatola da 10.000 pezzi. Il manager dei costi vuole la seconda, ma l'artigiano che deve assemblare la macchina riceve un primo messaggio di efficientismo, che pian piano lo distacca da un lavoro sacrale, per dirottarlo verso una aliena catena di montaggio.

E altrettanto possiamo dire delle componenti in materiale sintetico, in acciaio tranciato invece che lavorato alla macchina utensile, delle scritte serigrafate invece che incise, e così via, fino ad arrivare al telemetro non tarato alla perfezione perché oggi devi farlo in mezz'ora mentre qualche anno fa ti lasciavano il doppio del tempo. E' necessario sottolineare come l'attuale livello qualitativo Leica sia comunque a livello spaziale rispetto a tutto il resto, ma nemmeno in Leica si può più pensare di lavorare senza compromessi. Questo non deve farci disamorare della M7 o della MP, la cui funzionalità è tale da non permettere confronti, quanto piuttosto farci considerare con occhi diversi la produzione anteriore agli anni '80, epoca in cui i primi oculati risparmi che hanno permesso alla Leica di sopravvivere alla crisi più grave della sua esistenza, vennero messi in atto.

Torniamo nelle officine Ernst Leitz di Wetzlar, siamo di nuovo nella metà degli anni '50.
Il mondo fotografico ha accolto con entusiasmo la M3, ma come sempre accade, ognuno vorrebbe la macchina fotografica su misura. C'erano i fotoreporter, ad esempio, che giudicavano inutile la cornice del 135, che avrebbero barattato molto volentieri con una che indicasse l'inquadratura del 35mm. Inoltre, anche se non riesco francamente a capirne la ragione, qualcuno rimpiangeva il vecchio contafotogrammi ad azzeramento manuale. Detto fatto, nel 1957 nasce la M2, identica alla sorella maggiore, salvo un mirino con ingrandimento ridotto (0,72), contafotogrammi esterno manuale come nelle vecchie macchine a vite, e qualche semplificazione meccanica (come la soppressione, ahimé, di un cuscinetto sull'albero di trascinamento), che permettono di offrire un modello alternativo, e leggermente meno costoso.

Il tandem funziona bene per oltre un decennio, con buon successo di entrambi i modelli (anche se la M2 vende in tutto poco più di 80.000 macchine, un terzo della M3); ma entrambe le macchine sopravviveranno di un solo anno alla nuova regina, forse la M più amata di tutti i tempi: quella M4 nata nel 1967, e dal cui DNA vennero clonati anni dopo quei modelli che sopravvivono tutt'oggi.

La M4 cerca di raccogliere in un solo modello le qualità della M2 e della M3, aggiornandone al contempo design e funzionalità. Il mirino parte da quello della M2, con ingrandimento 0,72, aggiungendo anche la cornice (piccolissima, in verità) del 135mm; abbiamo pertanto le seguenti cornici: 35/50/90/135. Non cambiano otturatore e meccanica interna, mentre compare per la prima volta il peculiare manettino inclinato (per ragioni di spazio) che sopravvive fino agli ultimi modelli. Vengono ristilizzati comandi minori (leva di carica, levetta autoscatto e selezione focali, ecc.), ma la sostanza è la stessa dei modelli precedenti. La M4 viene venduta in circa 60.000 esemplari, spalmati in otto anni di vita: già questo dato, confrontato con i numeri dei modelli precedenti, la dice lunga sul declino che il telemetro inizia a conoscere in quegli anni, spintonato dalla ormai dirompente rivoluzione delle reflex monobiettivo.

La M4, forse non raffinata quanto la M3 (almeno questo dicono i sensi, utilizzando le due macchine), ma bella, pura ed essenziale come solo una Leica sa essere (al massimo posso concedere un pari empito d'amore per una Nikon F con il prisma non esposimetrico), rimane la macchina di riferimento dell'era tradizionale, il modello che la mia memoria di appassionato di mezz'età ricorda al collo dei grandi reporter, la dominatrice dei primi listini che adolescente mi davano (quasi!) più emozioni di una furtiva copia di Playboy.
Sto invecchiando, e in certi sentimenti comincio a vivere con le spalle rivolte al futuro...

M5, CL

E' giunto il momento di esaminare due macchine che incarnano una sorta di maledizione che accompagna il marchio Leica da un certo momento in poi: quella di riscuotere un successo non esaltante in vita, per essere invece amaramente rimpiante una volta uscite di produzione.
Stiamo parlando della M5 e della CL, le prime macchine a telemetro dotate di esposizione TTL.
La M5 nasce nel 1971, si affianca alla M4 senza sostituirla, e porta, per la prima volta dalla nascita del sistema M, una poderosa ventata di novità. Intanto, la misurazione dell'esposizione attraverso l'obiettivo, primato ardito e tecnologicamente ambizioso per l'epoca: un conto è piazzare una cellula dentro il pentaprisma di una reflex, un altro è intercettare la luce in una telemetrica. Fu necessario a questo scopo creare un elaborato sistema meccanico che utilizza un braccetto mobile (sul quale è alloggiata la cellula) che si togliesse di mezzo un istante prima dello scatto, per non interferire con l'esposizione. L'esposimetro, con cellula al CDS, è estremamente preciso e sensibile, e legge su un'area molto ristretta (spot); la macchina vanta inoltre la scala dei tempi visibile nel mirino, e un praticissimo selettore dei tempi che può essere comodamente manovrato con un solo dito. E' dotata di autoscatto, scala sensibilità da 6 a 3200 ASA, tempi di esposizione da 1/2 a 1/1000 di secondo.
La M5 nasce sulla stessa meccanica della M4, ma per fare posto ai meccanismi della cellula è necessario maggiorare di qualche millimetro la struttura della macchina. L'incremento di dimensione, unitamente a un restyling non proprio felicissimo (anche se devo dire che a me non dispiace, ma obiettivamente non può reggere il confronto con il classico corpo M) fanno digerire malvolentieri al pubblico Leica il feroce prezzo di listino a cui viene proposta sul mercato, e la maggioranza continuerà a preferire la M4, tutt'al più corredata di Leicameter. E' un peccato, perché la M5 rimane una macchina meravigliosa, e molti che la scoprono se ne persuadono tutt'oggi. Il funzionamento è dolcissimo, l'impugnatura salda anche per chi ha mani grandi, la lettura dell'esposizione, con galvanometro, assai più rapida e precisa che con i successivi led; gli stessi tempi nel mirino sono una comodità impagabile che fino alla M7 non avremo più...
Meno di 35.000 fotocamere in circa 5 anni di vita. Per ogni macchina venduta, fonte Leitz, la casa rimetteva 1000 marchi. Con la cessazione della M5, muoia Sansone con tutti i Filistei, si sospende la produzione delle macchine a telemetro in casa Leitz, fino a che, nel 1977, non partirà l'esperimento M4-2.

La storia della Leica CL (Compact Leica) si sovrappone in parte a quella M5, anche se la realizzazione e il target erano profondamente diversi. Ne condivide tuttavia l'idea di base della cellula montata su braccetto mobile, che ne fa tuttora la più piccola telemetrica con esposimetro TTL. Se la M5 ingigantiva un poco il classico corpo M, la CL al contrario cerca di miniaturizzarlo al massimo, ferma restando una certa compatibilità con le ottiche M, che in gran parte può montare. A proposito di obiettivi, assieme alla CL nascono un 40/2 e un 90/4 dedicati, di ottime prestazioni; pur essendo dotati di innesto M, la casa ne sconsiglia l'uso su altri modelli per la particolare inclinazione della camme telemetrica; nessun problemna invece a usare le altre ottiche M sulla CL, salvo quelle troppo grandi come il Noctilux (che ostruiscono il telemetro) o quelle dotate di occhialini (che finiscono in posizione sbagliata). Primo frutto telemetrico della collaborazione con Minolta, la CL offre tempi da 1/2 a 1/1000 di secondo, scala delle sensibilità da 25 a 3200 ASA, cornici per il 40mm e il 50mm (fisse) e per il 90mm (che compare all'atto del montaggio dell'ottica); come la M5 permette di leggere i tempi nel mirino, e di azionare comodamente il selettore dei tempi con il solo dito indice.
In realtà la CL non vende male: 65.000 pezzi in circa tre anni (1973/1976) non è un cattivo risultato, ma ciò non basta a salvarla dal precoce pensionamento, e dal tuttora perdurante rimpianto di molti appassionati.

M4-2, M4P, M6
Come già detto, con l'uscita di scena della M4 e M5 (1975) e della piccola CL (1976), si interrompe in quel di wetzlar la produzione di fotocamere a telemetro. La dirigenza Leitz, profondamente scoraggiata dall'andamento del mercato, va a cercare in Giappone e nella reflex la sopravvivenza dell'azienda.
Trascorrono così un paio di anni molto tristi: dall'inizio della storia Leica non era mai successo che non esistesse una fotocamera con questo nome che esibisse il suo bel mirino galileiano. Unica rappresentante del mito Leica, in quei tempi, la "meticcia" R3, certo non il sogno dei sostenitori più sfegatati.

Tutto sembra perduto, le altre grandi case tedesche hanno già capitolato da un pezzo, e nulla all'orizzonte lascia presagire la rinascita che di lì a poco arriverà sotto forma di un deus ex machina canadese...

Proprio così, negli stabilimenti di Midland, assieme ad eccelsi tecnici c'era anche un dirigente illuminato che lanciò una sfida a Wetzlar, quella di rimettere in produzione un quantitativo di apparecchi a telemetro per soddisfare una richiesta che evidentemente aleggiava nell'aria; dalla Germania si replicò con un rilancio: facciamo le macchine se ce ne vendi anticipatamente qualche migliaio. Dopo poco, il nostro eroe (mi spiace di non ricordarne il nome, ma questa storia è stata narrata da poco su Leica Magazine) si ripresentò con contratti in avanzo per ripartire con l'avventura della M. La linea di produzione M venne trasferita in Canada, e ci si mise al lavoro.
Si riprese in mano la M4, venne giudicata opportuna una predisposizione per il winder, e superfluo l'autoscatto; qualche piccola semplificazione produttiva, e via con la M4-2.
Fu un piccolo successo, circa 16.000 pezzi in tre anni. Lontani dai grandi numeri del passato, ma sicuramente meglio di niente.

Arriviamo al 1980. L'esperienza tutto sommato positiva della M4-2 convince la Leitz a riprendere la produzione in Germania. La M4-2 viene modificata nel mirino, cui vengono aggiunte le focali 28 e 75, e il nome viene variato in M4-P; in produzione fino al 1986, per un totale di circa 23.000 pezzi.

Ma la vera rivoluzione arriva nel 1984, quando l'elettronica permette finalmente di inglobare un sofisticato sistema esposimetrico nel classico corpo M senza alcuna modifica di stile e dimensioni: nasce la M6.
E fu vera gloria. La M6 è rimasta in produzione per ben diciotto anni (lievemente corretta sul finire della sua carriera nella versione TTL che permette l'esposizione flash con dialogo tra camera e lampeggiatore), dimostrando una affidabilità a tutta prova e una praticità estrema.
Come dicevamo, la M6 è identica alla M4P, con l'aggiunta di un moderno esposimetro. Quest'ultimo, dotato di cellula al silicio, legge sul piano focale, con lettura spot allargata. La segnalazione della corretta esposizione avviene attraverso due led a forma di freccia che vanno fatti accendere simultaneamente con eguale intensità. A parte questo "dettaglio", oltretutto invisibile dall'esterno, la macchina esprime tutta l'originaria purezza delle linee M, addirittura stilizzandole ulteriormente. A un certo punto, quasi all'epoca della trasformazione in TTL flash, viene presentata una variante, con mirino a maggior ingrandimento (0,85 invece di 0,72). Di lì a poco verrà ulteriormente ampliata la gamma con la versione 0,58 (pensata per un uso facilitato con i grandangoli e per chi porta occhiali); i due nuovi mirini perdono rispettivamente la cornice del 28 e del 135mm.
La TTL, nata sul finire degli anni '90, oltre alla già descritta lettura TTL flash, introduce un terzo led centrale di corretta esposizione, e vede modificato il selettore dei tempi, che nella versione tradizionale ruota in senso inverso alla indicazione della freccia nel mirino; oltre a ruotare nella direzione "giusta", il nuovo selettore è comodamente azionabile con un solo dito, grazie al maggior diametro dello stesso. Tutto qui, per una macchina che passerà il testimone alla M7 dopo quasi un ventennio di regno incontrastato, e, come la fenice, rinascerà sotto le mentite spoglie della MP...

M7, MP

Se la memoria non mi tradisce, la M7 nasce nella primavera del 2002. Finalmente, dopo anni di indiscrezioni, fantomatici prototipi, supposizioni, nasce la prima M con esposizione automatica.

In realtà, chi ha buona memoria, potrebbe ricordare un editoriale di Romolo Rappaini su Leica Magazine dove, in largo anticipo sui tempi, si annunciavano i mirini 0,58 e 0,85, e una macchina, appunto, con esposizione elettronica.

Sembra, ripeto sembra, che l'accelerazione finale sia stata voluta dalla neo insediata dirigenza Hermès, ma sicuramente l'idea circolava ormai da anni. Quasi identica esteriormente alla M6 TTL, la M7 se ne differenzia per la lettura DX, l'esposizione a priorità di diaframma (oltre che manuale, ovviamente), e l'otturatore a controllo elettronico che, in assenza di batterie, consente i soli tempi di 1/60 e 1/125.
Sportivamente bisogna ammettere che la soluzione che la Nikon ha adottato sulla splendida FM3a sarebbe stata sicuramente preferibile: otturatore completamente funzionante anche senza pile in manuale, e controllo elettronico con le batterie per l'esposizione AE. Ma accontentiamoci, un paio di pilette in borsa bisognerebbe sempre averle.
In manuale la macchina fornisce le stesse funzionalità della M6, con le solite frecce ad indicare la corretta esposizione; in automatico si può contare sul blocco della memoria collegato al pulsante di scatto.
Come valutazione strettamente personale, la grande varietà di segnalazioni che la macchina fornisce nel mirino sotto forma di puntini più o meno lampeggianti, numeri che possono essere alternativamente ISO o tempi di scatto, ecc. va a togliere parte del piacere purista della classica Leica, e il manuale di istruzioni comincia a diventare pericolosamente necessario.
Tuttavia la M7 piace subito e continua giustamente a raccogliere consensi, a dispetto di qualche piccolo peccato di gioventù, il più delle volte assolutamente veniale. L'operazione fotografica si semplifica e velocizza, e con un grandangolo moderato focheggiato a stima e un diaframma medio, si va sicuramente più veloci che con un'autofocus.

La M7 inizialmente toglie di mezzo la M6. Di punto in bianco la Leica si trova a non avere più nessuna macchina integralmente meccanica in catalogo. In molti ci rimangono male, ma l'attesa non sarà lunga, visto che pochi mesi dopo nasce la MP.

La MP è una M6 classic (non TTL flash), migliorata in numerosi dettagli costruttivi (parti meccaniche lucidate, mirino più contrastato, calotta in ottone, esposimetro privo di componenti discreti, eccetera), e ristilizzata un poco alla vecchia maniera.
Cercherò di essere imparziale, ma temo che alla fine la mia simpatia per questa vecchietta reduce da un efficace lifting non potrà rimanere nascosta...
La MP ricuce lo strappo con il popolo Leica più integralista in modo inaspettato; sulla arida calotta vuota della M6/M7 torna a sbocciare il corsivo pantografato "Leica", mentre il marchio scompare dal frontale. Via il discusso bollino rosso, per far tornare al proprio posto la classica vite; scompare anche il manettino di riavvolgimento inclinato che accompagna le Leica dalla M4 in poi, rimpiazzato da un ipertradizionalista nottolino godronato, più pratico di quanto sembri (e comunque integrabile con una manovellina accessorio). Il mirino telemetro raggiunge una luminosità e un contrasto spettacolari, qualità che verrà presto trasferita anche sulla M7, e il feeling che la macchina riesce a trasmettere nel maneggiarla richiama molto ma molto da vicino i capolavori degli anni d'oro...

Ci siamo, il nostro veloce excursus tra le macchine Leica M giunge al suo termine.
Rimangono considerazioni di carattere generale, e magari qualche approfondimento.

Intanto possiamo dire che nessun'altra dinastia può probabilmente vantare tanta coerenza ideale, qualitativa, tecnica, attraversando uno spazio di mezzo secolo; proviamo a confrontare cosa producevano cinquanta anni fa le altre grandi case, e mettiamo quei prodotti vicino a quelli di oggi. Lotta impari! La M ha raccolto il successo della qualità e della felice intuizione di quei mastri designer di allora.

Possiamo aggiungere che nella linea M, a ben guardare, non ci sono quasi doppioni. Possiamo considerare forse ripetitive le varianti M4/M4-2/M4P, ma guarda caso hanno lo stesso nome; per il resto ogni apparecchio ha una sua filosofia, e credo di non dire una fesseria affermando che a me piacciono tutte, e che ne vorrei una per tipo:

Una M3 per assaporare appieno la leggendaria qualità meccanica della Leitz; per il suo mirino meravigliosamente semplice e pulito, per la minimale semplicità della macchina, per la manualità con cui la si alimenta (basti pensare al laborioso atto d'amore che è un semplice cambio di pellicola)...

Una M2 per poter utilizzare pienamente la più bella focale, il 35mm, senza rinunciare all'impostazione quasi gemella della precedente...

Una M4 (o sua erede M4-2, M4-P) per la completezza del mirino e per la maturità del prodotto, oltre che per essere una icona per quelli della mia età...

Una M5 per la maneggevolezza, l'impugnatura sicura, la completezza, la meccanica sopraffina...

Una M6 per la sintesi mirabile di forma e funzione...

Una M7 per la disinvoltura con cui una formula antica come il telemetro può essere traghettata nell'attuale...

Una MP per un calibrato ritorno al passato...

Ora mi metto a collezionarle tutte, e cercherò di stare attento, nell'acquisto, a:

Nella M3 controllerò bene la brillantezza del telemetro, che non deve essere scolorito o macchiato; l'immagine telemetrica mobile della M3 non raggiunge mai il contrasto degli altri modelli, ma deve essere comunque nitidissima e leggibilissima; l'otturatore deve scorrere dolcemente e silenziosamente anche nei tempi lunghi, compreso il caratteristico ritorno del ritardatore (la leggenda narra che una Leica M, quando scatta a 1 secondo, fa lo spelling di: WETZ-LARRRRRRRRRR); nel primo tipo a due colpi, forzando leggermente la leva ad otturatore armato, il blocco deve essere sicuro, e la leva non slittare; proverò l'autoscatto, il selettore delle cornici, ispezionerò la tela delle tendine, testerò il telemetro all'infinito, e se sarà possibile scattare un rullo di prova, anche alle brevi distanze.

Nella M2 e nella M4 eseguirò gli stessi controlli, con meno trepidazione per il telemetro, che non ha la stessa tendenza a scolorire (generalmente per colpa dell'umidità) della M3.

Nella M5 cercherò di sincerarmi della perfetta scorrevolezza della leva di carica (che deve riarmare ogni volta anche il braccetto dell'esposimetro) e soprattutto della perfetta taratura dell'esposimetro; porterò con me una pila da 1,35 volt zinco/aria (Polyphoto, 7,70 euro), e una macchina di sicura efficienza sensitometrica. Eviterò come la peste di acquistare una macchina "ritarata" a 1,5 volt. Potendo scegliere, preferirò una M5 "tre ganci" (dotata cioè di tre attacchi per la tracolla) perché si tratta della versione più recente, mondata di alcune piccole imperfezioni.

Nella M6 cercherò di evitare la primissima serie (peraltro interessante collezionisticamente), e controllerò con attenzione il telemetro (anche nella taratura verticale); andrò a sincerarmi che il contapose si azzeri con sicurezza ogni volta che apro il dorso, e che le cornicette delle focali scorrano perfettamente e senza inerzia.

La M7 e la MP, ancora prodotte, posso comprarle anche nuove...
CIAO - WETZLAR 2011 ... io c'ero.
http://emilio-vendramin-fotografie.weebly.com/

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